Chiara Poggi
Chiara Poggi

Chiara Poggi

Il delitto di Garlasco

Garlasco, provincia di Pavia. 13 agosto del 2007.
Garlasco è una cittadina tranquilla, nella Lomellina centro-orientale, situata tra il Sesia, il Po e il Ticino. Territorio da sempre con forte vocazione agricola, ha nel capoluogo Vigevano uno dei principali centri industriali dell’Italia settentrionale. Garlasco è inoltre nota a livello popolare col nome di “Las Vegas della Lomellina” o “Las Vegas della Lombardia” in virtù dell’alta concentrazione di attività ricreative che fin dagli anni ’60 l’hanno contraddistinta.
Ma non è della cittadina che dobbiamo parlare, ma di un fatto accaduto al suo interno, un brutto fatto, un fatto di sangue, un delitto.


13 agosto 2007, ore 13:50. Una chiamata allerta il 118: “Sì, mi serve un’ambulanza in via Giovanni Pascoli a Garlasco, È una via senza uscita, mi sembra il 29 ma non ne sono sicuro. Credo che abbiano ucciso una persona ma non ne sono sicuro, forse è viva. Adesso sono andato dai carabinieri, c’è sangue dappertutto e lei è sdraiata per terra”. A quel punto, la centralinista domanda se si tratti di un parente: “No. È la mia fidanzata”. Poche parole, pronunciate con un tono che viene definito agli atti ”distaccato”.


Chi è l’autore di quella telefonata? É un ragazzo di 24 anni, si chiama Alberto Stasi. Un ragazzo apparentemente tranquillo, nato e cresciuto a Garlasco. È iscritto alla Facoltà di Economia della Bocconi, percorso di studi che sta per ultimare con una tesi a cui lavora da mesi. Durante le pause dallo studio, Stasi incontra una ragazza, con la quale trascorre molto tempo. Quel mercoledì di agosto il giovane racconta di aver telefonato alla sua ragazza almeno 7 volte (sia da fisso che da cellulare) e di aver raggiunto la villetta dove abita a bordo della sua Volkswagen attorno alle 13.30. Non ricevendo risposta dalla fidanzata e notando le finestre aperte dell’abitazione, decide di scavalcare il muretto di recinzione. La porta di casa è socchiusa, Stasi attraversa il soggiorno e si dirige verso la tavernetta dove, al di là della porta, c’è il corpo senza vita della ragazza al fondo della scala. A quel punto, ritorna in strada e chiama il 118.


Ma chi è quella ragazza? È una ragazza di due anni più grande di Stasi, si chiama Chiara Poggi. Chiara è una ragazza di 26 anni residente a Garlasco, laureata a pieni voti in Economia e successivamente stagista presso uno studio commerciale di Milano. Ha due grandi occhi azzurri che, così come dimostreranno le indagini, sono lo specchio di un animo puro, senza vezzi. Chiara non ha né scheletri nell’armadio né grilli per la testa. Lavora sodo e, di tanto in tanto, si concede qualche chiacchierata al telefono con le amiche, uno scambio di messaggi via mail, nulla di più. Nel tempo libero, frequenta il suo fidanzato Alberto, di due anni più piccolo, del quale è innamorata.


Gli investigatori accorsi per una prima ricostruzione dei fatti accertano che Chiara si trovava da sola in casa, nella villetta al civico 8 di via Pascoli mentre i genitori e il fratello sono in Trentino per una breve vacanza. Alle ore 9.12, la giovane disattiva l’allarme (inserito alle 1.52) ed apre la porta all’aggressore. Indossa un pigiama rosa ed ha appena finito di fare colazione. L’assassino la colpisce al volto e al capo utilizzando un oggetto contundente, probabilmente un martello da muratore o forbici da sarto, che non sarà mai ritrovato. Chiara comincia a perdere sangue, l’aggressore la trascina per i piedi fino alla porta di accesso alla tavernetta del piano seminterrato poi, le infligge altri colpi alla nuca in cima alle scale che conducono alla cantina. Resta in vita per 30 minuti, comproveranno gli esami autoptici, salvo poi morire riversa in una pozza di sangue per le profonde ferite alla nuca.


Da subito, il primo ed unico indiziato fu Alberto Stasi, il fidanzato, per una serie di indizi e circostanze. Appurato che non ci furono segni di effrazione e quindi la vittima aprì all’assassino, vestita in pigiama, dava l’idea che l’ospite fosse in intimità con lei. Stasi racconta di aver trovato lui il corpo, ma le scarpe erano estremamente pulite, circostanza anomala visto che per poter vedere il cadavere avrebbe dovuto in qualche modo sporcarsele in quel lago di sangue esteso. Anche alcune incongruenze nel suo racconto aumentavano i sospetti, per non parlare di quella chiamata al 118, fredda e distaccata. Fu arrestato il 24 settembre 2007, su ordine della Procura di Vigevano, ma successivamente scarcerato quattro giorni dopo dal giudice per le indagini preliminari Giulia Pravon per insufficienza di prove. Già, le prove. Analizziamole.


Il computer. In quel periodo, Stasi sta lavorando alla tesi di laurea. Lo avrebbe fatto anche il giorno in cui Chiara viene uccisa: dalle 9.36 alle 10.17 e successivamente fino alle 12.20, quando il dispositivo viene messo in stand-by. Ma sullo stesso pc dove sta redigendo l’elaborato finale del corso di laurea, il 24enne nasconde, in una cartella denonimata ”Militare”, la sua passione per la pedopornografia. Quando i carabinieri acquisiscono il computer, all’indomani del delitto, scoprono 10mila foto di donne, talvolta anche minori, coinvolte in atti di natura sessuale ”raccapriccianti”. Quei file vengono catalogati ”ossessivamente” e visionati, per circa 10 minuti, anche la mattina del 13 agosto. La sera precedente ai fatti, il 12 agosto, Stasi lascia il pc a casa della fidanzata e ritorna presso la sua abitazione per controllare il cane. In quel breve lasso di tempo in cui si assenta, circa 20 minuti, Chiara ha visionato alcune cartelle. Purtroppo non possiamo sapere se abbia guardato anche quella ‘Militare’ in quanto c’è stata un’operazione maldestra dei carabinieri, quando hanno controllato il pc, che ha alterato gli accessi. Ma è altamente probabile che lo abbia fatto.


Le scarpe. Il principale elemento indiziario a carico del 24enne sono il ”mancato imbrattamento delle scarpe” nonostante abbia attraversato la scena del crimine. Dai rilievi effettuati dai Ris di Parma, emerge che le impronte lasciate dall’assassino di Chiara corrispondano ad un paio di scarpe numero 42, la stessa misura del piede di Stasi. Tuttavia, sulle scarpe del ragazzo ”tipo Lacoste” numero 41, calza, a seconda del modello, 41 o 42, non vengono individuate tracce del Dna di Chiara. Più tardi, un raddrizzamento fotogrammetrico di un paio Geox, modello city numero 42, che l’indiziato calzerà durante il processo di primo grado indicheranno la compatibilità con la dimensione delle suole rinvenute nella villetta dei Poggi. Senza contare che, nella casa di via Pascoli non saranno mai rinvenute orme di terzi. Il fatto che Stasi fosse entrato nella villetta, avesse aperto la porta di accesso alle scale dove ha trovato Chiara, senza sporcarsi le scarpe di sangue, è un indizio di colpevolezza. Impossibile dal momento che, proprio lì davanti, c’era una distesa pozza di sangue. Posto che una persona non abbia il potere di volare, non è pensabile che l’abbia schivata.


La bicicletta. È uno degli elementi-chiave del processo che determineranno la colpevolezza di Stasi. All’esterno della villetta di via Pascoli 8, viene avvistata una bicicletta nera, da donna, appoggiata alle mura d’ingresso dell’abitazione. La segnalazione viene fatta da due testimoni. È quella di Stasi? A quanto pare, il ragazzo è solito utilizzarne una di colore bordeaux, oro e nocciola. In realtà, il ragazzo possiede quattro biciclette da donna, delle quali, una nera collocata nel negozio di ricambi del padre la cui esistenza viene nascosta agli inquirenti. Le indagini successive accertano che la bicicletta nera, una ”Luxury”, monta pedali Union”che, di serie, sono invece rinvenibili sulla bicicletta “Umberto Dei”, quella da uomo bordeaux con cui il 24enne è solito spostarsi. Viceversa, tale veicolo, sequestrato ai tempi dell’inchiesta, monta pedali non originali Wellgo, sui quali vengono trovate tracce ”copiose” del DNA della vittima. Il nesso è chiaro ed evidente per gli inquirenti: Stasi ha invertito i pedali delle due biciclette.


Impronte. Altro rilevante indizio di colpevolezza è l’impronta digitale dell’anulare del giovane sul dispenser del sapone liquido nel bagno a piano terra di casa Poggi, segnato da residui del DNA della giovane. Sulla scena del crimine non vengono riscontrate impronte digitali appartenenti a terzi, nemmeno sul pomello della porta della cantina ‘sicuramente chiusa prima di gettare il corpo giù dalle scale.


Il capello. Nella mano sinistra della ragazza, viene ritrovato un capello castano chiaro privo di bulbo e, quindi, di DNA. Tuttavia, alcuni residui sotto le unghie presentano marcatori maschili compatibili, ma non attribuibili con certezza all’indagato e, secondo indiscrezioni dei mass media, anche con almeno due profili maschili sconosciuti e non identificabili o confrontabili a causa del deterioramento del materiale.


La difesa formulò le proprie tesi per smentire indizi e prove. Secondo i legali, Stasi non si sarebbe sporcato poiché il sangue era già secco; la perizia medico-legale indicò un’ora della morte congruente con questa ipotesi e quella informatica diede un alibi al giovane, che sarebbe stato al lavoro sul computer a preparare la tesi di laurea. Sempre secondo la difesa, il delitto, dopo aver suggerito di indagare in ambito familiare e lavorativo, potrebbe attribuirsi a una rapina violenta, in cui il ladro si sarebbe fatto inizialmente aprire dalla vittima con l’inganno. Questa ipotesi fu respinta anche dalle sentenze assolutorie.


In primo grado il 17 dicembre 2009 al tribunale di Vigevano, il GUP Stefano Vitelli, in funzione di giudice monocratico, prosciolse Stasi, per non aver commesso il fatto. In appello il 7 dicembre 2011, davanti alla Corte d’Assise d’appello con giudici popolari e col processo spostato a Milano, una nuova perizia (non accettata però dal collegio giudicante) spostò l’ora della morte, negandogli così l’alibi e la plausibilità del fatto che non si sarebbe sporcato, senza per questo ottenere una condanna. La sentenza fu di assoluzione “per non aver commesso il fatto”.
La Cassazione, tra le motivazioni dell’annullamento, ordinò gli esami del DNA del capello trovato tra le mani della vittima e su residui di DNA sotto le unghie, repertati e mai analizzati, che non furono presi in considerazioni nei 2 giudizi precedenti. Nonostante l’annullamento con rinvio delle due assoluzioni, la Suprema corte ribadì che fosse, a proprio giudizio, difficile «pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza» e quindi «impossibile condannare o assolvere Alberto Stasi», preferendo però non confermare il proscioglimento, in attesa dei nuovi esami scientifici.


Al processo d’appello bis il 17 dicembre 2014, in seguito alla nuova perizia computerizzata sulla camminata e ad alcune incongruenze nel racconto, e pur in assenza di riscontri nei nuovi test del DNA (come quello sul capello), Stasi viene ritenuto colpevole e condannato a ventiquattro anni di reclusione (pena poi ridotta a 16 anni grazie al rito abbreviato) per omicidio volontario, con l’esclusione però delle aggravanti della crudeltà e della premeditazione. Presentando poi ricorso in Cassazione, il pm chiede la conferma della condanna e l’aggravante della crudeltà (per inasprire la pena), mentre la difesa (composta dagli avvocati Angelo e Fabio Giarda e Giuseppe Colli) chiede l’annullamento senza rinvio o un nuovo processo, ricollegandosi ai dubbi espressi in precedenza dalla stessa Cassazione sull’impossibilità di determinare la colpevolezza o l’innocenza con certezza.


Il procuratore della Cassazione chiese a sorpresa l’annullamento della condanna, con preferenza per il rinvio. Tuttavia, il 12 dicembre 2015 la Corte di Cassazione conferma la sentenza-bis della Corte d’Appello di Milano condannando in via definitiva Alberto Stasi a 16 anni di reclusione, anche senza delineare un movente, parlando di un momento di rabbia di Stasi.
Le motivazioni della sentenza risiedono:
• nel fatto che Chiara Poggi è stata uccisa da una persona conosciuta, arrivata da sola in bicicletta, che ella stessa ha fatto entrare in casa. Chi ha fatto ingresso nell’abitazione la conosceva bene, come desumibile anche dal percorso effettuato all’interno delle stanze al piano terra;
• nel fatto che Alberto Stasi, fidanzato della vittima, in rapporto di confidenza con lei, conoscitore della sua casa e delle sue abitudini, possessore di più di una bicicletta da donna, compatibile con la “macrodescrizione” fattane dalle testimoni due testomini, ha fornito un alibi che non lo elimina dalla scena del crimine nella “finestra temporale” compatibile con la commissione dell’omicidio;
• nel fatto che Alberto Stasi ha reso un racconto incongruo, illogico e falso, quanto al ritrovamento del corpo senza vita della fidanzata, sostenendo di avere attraversato di corsa i diversi locali della villetta per cercare Chiara; sulle sue scarpe, tuttavia, non è stata rinvenuta traccia di residui ematici, né le macchie di sangue sul pavimento sono risultate modificate dal suo passaggio; neppure sui tappetini dell’auto, sulla quale egli stesso ha sostenuto di essere risalito immediatamente dopo la scoperta di Chiara, sono state rinvenute tracce di sangue per trasferimento dalle scarpe; il racconto dell’imputato, anche con il riferimento all’indicazione delle modalità di rinvenimento del corpo di Chiara (con la parte visibile del volto bianca, invece che completamente ricoperta di sangue), è assimilabile a quello dell’aggressore, non dello scopritore;
• nel fatto che Alberto Stasi non ha mai menzionato, tra le biciclette in suo possesso, proprio la bicicletta nera da donna collegata sin dal primo momento al delitto e corrispondente alla “macrodescrizione” fattane dalle testimoni , fatto questo che evidenzia come l’imputato ne conoscesse l’importanza e la possibilità di collegarla all’omicidio;
• nel fatto che sul dispenser del sapone liquido, utilizzato dall’aggressore per lavarsi le mani dopo il delitto, sono state trovate soltanto le impronte dell’anulare destro di Alberto Stasi, che lo individuano come l’ultimo soggetto a maneggiare quel dispenser considerate, peraltro, la posizione delle due impronte e la non commistione con DNA della vittima, circostanze dimostrative del fatto che l’imputato maneggiò il dispenser per pulirlo accuratamente, dopo essersi lavato le mani ed avere ripulito il lavandino;
• nel fatto che sui pedali della bicicletta di Alberto Stasi, la “Umberto Dei”, Milano, è stata rinvenuta una copiosa quantità di DNA di Chiara Poggi, riconducibile a materiale “altamente cellulato”; tali pedali non sono risultati quelli propri di quella tipologia di bicicletta, venduta, invece, alla famiglia Stasi con pedali diversi e di serie, e risultano apposti sull’unico velocipede appartenente alla famiglia Stasi, che non poteva venire confuso con quello individuato dai testi oculari davanti a casa Poggi;
• nel fatto che l’assassino era un uomo che calzava scarpe n. 42 e Alberto Stasi possedeva e indossava anche scarpe della marca di quelle dell’aggressore, nonché anche di taglia 42.


Per ogni delitto commesso è da ricercarsi il movente, la causa scatenante dell’atto. Nel caso del delitto di chiara Poggi, la motivazione sarebbe da ritrovare in un ”raptus” e il movente, almeno in apparenza, sembrerebbe non essere mai stato chiarito. Ma la sentenza del 2014 riferisce di alcune ”difficoltà” interne alla coppia, c’è quello che è accaduto la sera prima del 13 agosto, la possibilità che Chiara abbia visionato i file compromettenti sul computer di Alberto, a comprovare ulteriormente la sua colpevolezza oltre ai 7 ‘indizi forti’ che sono ormai noti.


I suoi avvocati in seguito presentano ricorso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo onde ottenere la revisione del processo. Il 19 dicembre 2016 la difesa presenta una perizia genetica che indica che il DNA ritrovato sotto le unghie di Chiara Poggi apparterrebbe ad un conoscente della vittima e non a Stasi. Il 22 dicembre la procura di Pavia ha aperto una nuova indagine riguardante un amico del fratello di Chiara Poggi, Andrea Sempio, il quale era solito spostarsi in bicicletta per Garlasco e avrebbe il numero di scarpe simile a quello di Stasi, oltre a un alibi non completamente solido. Il giorno seguente il Procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, ha accolto l’istanza di richiesta della revisione del processo, ritenuta “fondata”, e trasmettendola alla competente Corte d’Appello di Brescia.


La corte d’appello si è dichiarata nel 2017 non competente per vizio procedurale (gli avvocati di Stasi non hanno presentato esplicita richiesta). I legali hanno poi ripresentato istanza, allegando anche prove testimoniali. L’inchiesta su Andrea Sempio è stata invece archiviata il 2 marzo 2017. Sempio ha poi querelato i legali di Stasi per calunnia. Stasi a maggio del 2017 ha invece inoltrato ricorso straordinario in Cassazione per vizio di procedura (testimoni e prove di primo e secondo grado non richiamati in appello sebbene non delegittimati nell’annullamento, che chiese solo alcuni nuovi accertamenti: ossia la donna che vide la bicicletta non riconoscendola, i periti informatici e i periti medico-legali di primo grado) e quindi violazione del diritto al giusto processo, chiedendo la revoca della condanna, il sollevamento della questione di legittimità costituzionale e un nuovo processo d’appello.

Il 19 marzo 2021, la prima sezione penale della Suprema Corte ha respinto la richiesta di revisione della condanna per omicidio, permanendo «la valenza indiziaria di altri numerosi e gravi elementi» contro Stasi.